Once upon a time

Eh si, c’era una volta e sì, una volta c’era davvero…

C’era una volta svegliarsi la mattina, prepararsi fisicamente e mentalmente alla giornata di lavoro, uscire magari al freddo e alla pioggia, alle 7 di mattina per aspettare l’autobus, per essere al lavoro alle 8.

E la giornata scorreva, più o meno veloce, inframmezzata dalle chiacchiere coi colleghi, le pause, il pranzo fatto da uno yogurt e un pacchetto di crackers, le corse per le scale per non aspettare l’ascensore e rubare un minuto in più e farci stare una sigaretta.

Oppure le fughe fino al 10° piano sulla terrazza a guardare il cielo aprirsi nelle luci della sera.

C’era una volta con l’orario serale l’ultima sigaretta con le colleghe all’uscita del City Center, il pezzetto a piedi fino alla Metro e spesso vedere il treno che ti sfilava davanti agli occhi, pieno fino all’inverosimile.

A volte lo lasciavi partire senza di te, tanto era impossibile salirci, aspettando quello successivo.
A volte dicevi vaffanculo e uscivi dall’altra parte per tornare a casa a piedi.

C’era una volta il traffico aereo, da quella stessa terrazza alle 7 di sera sembrava che il mondo intero volesse atterrare a Lisbona, una volta sono riuscita a fotografare le luci di 5 aerei in fila, nel corridoio aereo per l’aeroporto che passava proprio sopra la mia testa.

E quello stesso traffico aereo passava anche su casa mia, nei giorni di pioggia e vento, al punto che se sentivo gli aerei che passavano a pochi minuti uno dall’altro sapevo che fuori era brutto senza neanche guardare fuori dalla finestra.

C’era una volta andare a fare un giro al Centro Commerciale.

Mi piaceva girare per i corridoi e i marciapiedi di vetro come sospesi del Colombo o del Vasco de Gama, o trovare gli ex colleghi che lavoravano lì per bere un caffè insieme.

Nessuno dei due è vicino a casa ma facevo volentieri il tratto in metro o autobus, anche se quasi sempre affollate, e qualche volta al ritorno chiamavo un Taxi per non sobbarcarmi di borse e borsette nella ressa, specie quando era caldo che ti sembrava di scioglierti.

C’era una volta trovare gli amici la sera per una pizza, panini e patatine al 100 Montaditos, o al Cinese Abusivo, o un giro in centro, una birra o due, una serata di chiacchiere.

Come anche la cena di Natale o il pranzo di Pasqua, o uno dei tanti compleanni, in casa di uno o dell’altro, quando tutti portano qualcosa e resta nel cuore il tempo passato con chi ti vuole bene.

C’era una volta andare in giro per la città, pensare “ho voglia di vedere il mare” (che mare non è) oppure “oggi mi voglio arrampicare per le viuzze dell’Alfama o di Mouraria e arrivare al miradouro” o “prendo il battello e vado a Seixal o a Almada”.

C’era una volta pensare alle ferie, programmare in anticipo itinerari, noleggiare la macchina o prenotare il volo o la camera, il solo problema erano i giorni di ferie da fissare ma una volta organizzato tutto sapevi che quel giorno partivi, arrivavi lì o di là, senza limiti, senza padroni.

C’era una volta tornare in Italia dalla mia famiglia.

Era tutto così semplice, prenotavi il volo, andavi in aeroporto e partivi.
E dopo un paio d’ore vedevi le montagne ed eri a casa.
Non succedeva mai che pochi giorni prima, o il giorno stesso, ti trovassi il volo cancellato, i programmi mandati all’aria, i soldi che forse non riuscirai a recuperare, la voglia di vedere i tuoi sempre più frustrata dall’attesa che sembra prolungarsi all’infinito.

Non succedeva mai, come è successo a me, di pensare al viaggio ad ottobre, poi a novembre, poi a gennaio, poi ad aprile, e tutte le volte, tutte, vedersi crollare le illusioni e dover pensare, ok aspetterò ancora un po’, un po’ di più.

Si, una volta tutto questo c’era davvero, senza mascherine e “distanziamento sociale” o test fatti il giorno prima, non si sapeva che esistevano parole come antigenico o molecolare, o fattore Rt, esisteva il raffreddore e l’influenza e al massimo il vaccino antinfluenzale, non serviva stare chiusi in casa per settimane, al massimo uscendo per la spesa o il giro del quartiere, sempre col disinfettante a portata di mano.

Grazie Covid.

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Un commento

  1. Tratto da uno dei tanti commenti più o meno intelligenti trovati su internet ma comunque interessante per il pensiero positivo che esprime

    C’era una volta “Covid-19”, anche conosciuto come Coronavirus.

    Era un virus veramente pericoloso, temuto da tutto il mondo. Grida di paura, tristezza, rabbia per l’essere impotenti davanti a esso: era una guerra. Una guerra moderna, se così si può dire. Una guerra combattuta fino all’ultimo scontro dalle trincee “alternative”, le proprie abitazioni. Non c’erano rumori di spari, né tantomeno di missili; solo i canti di un Paese che, allo stremo delle forze, si ritrovava i pomeriggi sui balconi per scambiarsi messaggi di speranza. Non si imbracciavano più fucili, ma si indossavano guanti e mascherine.

    Alla fine non si capì mai se il virus fosse stato creato apposta da un Paese per favorire la propria economia o se fosse scaturito dal contatto tra pipistrello e uomo. Si seppe solo che fu un’arma talmente forte da mettere in ginocchio tutte le potenze mondiali, che innalzavano barriere puntualmente scavalcate dal virus. Un’arma in grado di piegare i sistemi sanitari di tutto il mondo. All’emergenza gli Stati reagirono tramite comportamenti differenti, per salvare la pelle dei propri abitanti. Gli uomini cominciarono a dubitare delle proprie capacità, spaventati. Si cominciò a guardare l’altro con disprezzo, ad allontanarsi sempre più dal contatto umano. Si fermarono i viaggi, le feste, le serate al mare. Per mesi gli abitanti del mondo racchiusero i loro sogni e ambizioni in un cassetto, conservato come il tesoro più prezioso.

    Quando i tempi bui finirono e la gioia aleggiava nell’aria, gli uomini aprirono i loro forzieri e si dedicarono ad esaudire i propri desideri con una consapevolezza diversa. Compresero che gli episodi catastrofici dell’emergenza mondiale non si sarebbero più dovuti ripetere, e che tutti avrebbero dovuto contribuire ad impedire l’avanzata di un simile pericolo. Si perse l’invidia, l’ipocrisia, la superficialità; si incominciò finalmente a dedicarsi a ciò che per troppo tempo era stato trascurato. Vedere i propri cari soffrire aveva fatto spalancare gli occhi degli uomini, mostrando loro le cose veramente essenziali della vita.

    Dell’epidemia di Coronavirus del 2020 non rimase altro che gli insegnamenti che questa aveva trasmesso:
    bisognava invertire la rotta, l’andamento che il mondo stava seguendo.

    Il virus evidenziò tutti i limiti della società per mostrare agli esseri umani cosa avrebbero dovuto fare per eliminarli. Con l’obbligo di rimanere a casa, per non contagiare gli altri, il Coronavirus mostrò agli uomini l’importanza della vita: apparentemente forte, rigogliosa, ma in realtà debole, da proteggere e curare.

    Marta R.

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